31 ottobre 2008

Orazione patafisica


La nobile macchina dell'amicizia ha preso la via del rilievo di parti di noi che concepiamo fin da tempi remotissimi come oggetti di rara bellezza, ma ormai sepolti da un cumulo detritico vulcanico che ci sconvolse un giorno.
Narciso da Belfredo, che fu tra i primi a scavare nei luoghi dove da antichi testi si desumeva fossero i resti delle dimore misteriose, delle oscure presenze destinate all'espressione, estrasse dal cuore dell'abitato, in mezzo al foro, un cadavere fossilizzato in posizione fetale, accovacciato, come un dormiente. Egli, allora regio ispettore delle Belle Arti per il territorio dell'Io, e di lì a poco direttore del Museo Nazionale di Es, non tardò a mettere in moto un meccanismo di figurazione che si dimostrò efficace a tradurre in movimento la statica degli oggetti desueti. Fece colare del gesso in fori praticati nel cavo della roccia sedimentaria, quasi un travertino ma di presenze umane anziché vegetali, e trasse fuori larve di uomini e animali abbandonati dalla follia a sè stessi, mutilati dal destino, fatalisti soffocati, piccole nidiate di progetti asfittici. Nessuno scultore, nessun artista potrebbe aver reso così interessante il lavoro dell'amicizia curando i tempi morti dell'espressione, le parole tratte da vaghe allocuzioni quasi accidentali delle membra. Solo un Narciso che poteva immaginariamente dialogare con la morte, negare al pieno un diritto di libertà, e valutare il vuoto come risonanza di significati dell'al di là, solo un tale uomo poteva trovare sè stesso in una pellicola di fuliggine secolare e riparare le proprie cure dentro un alito igneo e nello stesso tempo etereo, alone di una promessa di rispecchiamento ignoto.
Questa è stata la nostra pietra miliare nel percorso in cui ci troviamo, insieme, complici percorritori.




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