5 marzo 2009

Darsi all'ippica


Piccolit, cin piripim, era l'ago della bilancia per il tormento dell'intero ippodromo. Il teatro naturale di Oklahoma, disposto sullo sferisterio arrossato da un sole meridionale, in una valle dell'oro, faceva recitare tutti coloro che sceglievano una parte per la loro vita intera, e lo spettacolo aveva sempre il tutto esaurito. Il circo, l'arena, la conca nella quale oltre a cavalli galoppavano attori naturali, si disponeva certo ad ospitare un certo frenetico scambio di battute, di scommesse, un'economia d'azzardo insomma. E per colmo di fortuna, il Tutto s'esauriva in ogni istante. Una pienezza s'impadroniva del momento, sia nella gara, che nell'audizione, cosicché agli occhi gli orecchi palpitavano in coro: una tragedia poteva spendersi di lì a poco, e i fantini dunque potevano fare tutt'uno con le scene, la dialettica dei garretti, la schiuma di froge e il mal caduco insieme. Per colmo di sfortuna, le vincite non pareggiavano mai le disfatte, ma le disfatte non superavano neppure mai le vittorie, e questo mai non esauriva mai il Tutto. Piccolit, cirin pin pin, il fantino più noto al grande pubblico di uno spettacolo di briciole e miserie, era l'ago della bilancia sul filo del tormento per l'intero ippodromo, e nel teatro naturale questo si notava, in un modo tale che esaudendo un mai nella naturalezza del recitare, questo unico mai esaurisse il Tutto una volta per tutte.

A chi vuole intendere, senza menare cani per aie.

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